In merito ai conflitti tra gli esseri umani

Ritorno a ragionare sul conflitto come continuazione di un precedente scritto sulla relatività dei conflitti, in quanto ritengo tale questione cruciale per un contributo ad una teoria politica che faccia tesoro della storia passata e degli errori e fallimenti dei precedenti movimenti politici, e che cerchi di mettere in pratica il tanto noto quanto trascurato principio: sbagliando s’impara.
Proviamo innanzitutto a porci una domanda, se vogliamo, ingenua. Perché il conflitto tra gli esseri umani? Solitamente, esso viene attribuito al retaggio animale degli esseri umani. Eppure gli animali di una stessa specie non si danno la caccia tra loro. Fra gli animali che vivono in branchi sorgono conflitti per stabilire la gerarchia all’interno del branco, ma raramente questo conflitto si conclude con l’uccisione, in quanto la maggior parte delle specie hanno elaborato dei rituali che permettono di limitare il conflitto allo stabilire simbolicamente la prevalenza dell’uno o dell’altro. A parte questo, il lupo non è uomo al lupo, né si organizza per combattere altri branchi di lupi.
Ma se anche un retaggio animale del conflitto esistesse, vi è pure una dimensione specificamente umana del conflitto, la quale, che io sappia, non è stata per nulla considerata. Essa deriva proprio dal fatto che l’essere umano è un animale sociale che riproduce la propria esistenza attraverso la cooperazione sociale, la quale, però, a differenza di altre specie altamente sociali, come le formiche o le api, non è assicurata dagli istinti, essendo l’organizzazione sociale frutto dell’intelligenza umana, ma nasce come conflitto tra diverse idee di organizzazione sociale e come conflitto tra diversi ruoli nell’ambito dell’organizzazione sociale, tra cui alcuni sono di direzione e altri di subordinazione. È qui l’origine del carattere specificamente umano del conflitto. Il conflitto nasce proprio dalla necessità che gli esseri umani hanno di cooperare gli uni con gli altri.
Coloro che come Marx hanno ritenuto principalmente l’essere umano un animale sociale, hanno visto nel conflitto un retaggio animale superabile con la civilizzazione. La divisione in classi era iniziata quando gli esseri umani primitivi invece di divorare i nemici sconfitti scoprirono che era molto più vantaggioso ridurli in schiavitù al fine di far loro svolgere vari lavori sgradevoli. Era così finito il comunismo primitivo. Questa è la “narrazione” engelsiana, probabilmente condivisa dallo stesso Marx. Da un canto, il conflitto (sociale) è ritenuto da Marx il motore principale dell’evoluzione sociale, dall’altro l’evoluzione sociale, frutto del conflitto sociale, avrebbe portato da una società (il comunismo) in cui il conflitto sarebbe scomparso. Con la fine dei conflitti sarebbe finita la preistoria dell’umanità e sarebbe iniziata la storia vera e propria. Ma sarebbe stata la storia di un’umanità finalmente pacificata, una storia senza più tante storie. Per cui per parafrasare le sue stesse parole, c’erano state delle storie, ma con il comunismo non ce ne sarebbero state più. Ahimè, ma così sarebbe calato definitivamente il sipario sulla “commedia umana”.
La teoria marxiana è un per un certo verso un modello ancora insuperato di analisi della struttura sociale, ma presenta delle gravi carenze, risultato di una concezione errata del conflitto, sulla questione nazionale o per dirla in altri termini sulla questione della sovranità. L’esperienza storica dimostra che proprio questa carenza è stata fatale al movimento comunista. E’ significativo che Hobbes, materialista come Marx, abbia considerato il conflitto in modo decisamente opposto. “L’uomo non è un animale sociale” nega recisamente Hobbes. La conflittualità è intrinseca all’essere umano, ma siccome gli esseri umani hanno bisogno di cooperare gli uni con gli altri, ecco che sorge lo stato, il Leviatano che impone la pace sociale. Questa è una base, seppur essa stessa unilaterale, sicuramente più realistica per la teoria dello stato, e non è un caso, invece, che Marx non elaborò mai una vera teoria dello stato, uno dei difetti principali del comunismo, che ritroviamo nello stesso Lenin, il quale era convinto che la gestione dello stato potesse essere semplificata al punto che anche una cuoca ne sarebbe stata capace. Questo era il punto di vista dominante fra i comunisti. Non deve quindi sorprendere che Stalin abbia dovuto salvare in modo dittatoriale lo stato sorto dalla rivoluzione sovietica.
Dalla necessità di limitare il conflitto, affinché non comprometta la necessità della cooperazione tra gli esseri umani sorgono gli ordinamenti, le forme di regolazione dei rapporti tra gli esseri umani sia per quanto riguarda gli scambi, feudalesimo, capitalismo, sia per quanto riguarda le forme del dominio politico, monarchia, democrazia parlamentare. Gli ordinamenti sono equilibri basati sul disequilibrio. Il conflitto viene limitato attraverso il potere di alcuni gruppi sociali di sopprimere il conflitto. Questa diseguaglianza tende per sua natura a degenerare, allargando la forbice della diseguaglianza, compromettendo il motivo per cui era sorta, cioè la necessità di un ordinamento sociale che permetta agli esseri umani di riprodurre la propria esistenza, il che genera a sua volta conflitto. E’ questa una contraddizione che finora le società umane non hanno superato e che forse non supereranno mai. È all’interno di questa contraddizione che si verifica un andamento ciclico nel quale il degenerare di un ordinamento amplia il novero degli scontenti, che si allarga fino alle classi superiori, tra cui alcuni strati che occupano una posiizone subordinata all’interno degli stessi strati superiori, possono essere spinti ad approfittare dello scontento sociale al fine di imporre un diverso ordinamento. Questa dinamica era stata ipotizzata dallo stesso Marx quando ne Il manifesto del partito comunista indicava la possibilità che in alcuni casi strati delle classi superiori si stacchino dalle stesse per unirsi alle classi inferiori, ma si tratta soltanto di un accenno in quanto il sistema di Marx è stato sostanzialmente dualistico, la trasformazione sociale è determinata principalmente dalla lotta di classe contro classe. La mossa teorica decisiva di G. La Grassa è stata quella di spezzare questo schema dualistico, mettendo al centro il conflitto tra i dominanti, tuttavia, come teoria della trasformazione sociale è quantomeno incompleta, in quanto i settori dominanti scontenti possono modificare gli equilibri di un determinato sistema soltanto ricercando l’appoggio delle classi inferiori e tal fine devono dare necessariamente una risposta ai problemi pressanti che si verificano in un sistema sociale che ha subito una fase grave di degenerazione.
Il modello dualistico marxiano è oggi assolutamente insufficiente per l’analisi politica, come ho esposto nel mio articolo “relatività dei conflitti”, ogni conflitto può assumere un significato diverso in relazione ad altre forme di conflitto, a seconda del contesto la lotta di classe può assumere una valenza positiva o al contrario negativa. Come è stato chiarito da G. La Grassa le forme di principali di conflitto possono essere divise in tre grandi gruppi: la conflittualità tra formazioni particolari, cioè stati e coalizioni di stati, la conflittualità sociale, e infine la conflittualità interindividuale. Il divenire sociale è il risultato dall’intreccio di queste tre forme di conflittualità.
Il ruolo della conflittualità interindividuale è stato del tutto ignorato dal comunismo, anche dallo stesso Marx. Esiste una conflittualità interindividuale che si traduce in volontà di sopraffazione, ma esiste anche la legittima volontà di affermare il proprio merito. La volontà di migliorare la propria condizione e di affermare il proprio merito è uno dei motori fondamentali dell’evoluzione sociale e laddove la si è voluta sopprimere come nell’Unione Sovietica la società ne è risultata ingessata. Lo sviluppo in Unione Sovietica sorse dalla volontà e dalla consapevolezza del gruppo dirigente staliniano della necessità di mettersi al passo con le altre potenze, e che decise di utilizzare tutti gli strumenti dello stato a tal fine, ma una volta che questa volontà venne a cessare la società smise si svilupparsi, mancando della molla individuale all’accrescimento della ricchezza. Nietzsche colse con esattezza questo aspetto del socialismo e la sua continuità con il cristianesimo, e proprio come reazione al socialismo volle affermarlo in modo unilaterale fino ad elaborare una “metafisica della volontà di potenza”. Heidegger fu uno dei primi ad rendersi conto del carattere disastroso di tale metafisica, che consisteva non certo nel fatto in sé del necessario riconoscimento della volontà di affermazione individuale, ma nel fatto che essa veniva astratta dalla realtà sociale diventando appunto una metafisica, tale metafisica era stata uno dei pilastri ideologici del nazismo, il quale aveva voluto affermare la volontà di affermare la potenza tedesca, senza alcuna considerazione per la realtà effettiva.
Per quanto riguarda la conflittualità tra formazioni particolari essa è sempre esistita, ma con la cosiddetta globalizzazione ha assunto una dimensione specifica, in quanto con l’aumento degli scambi internazionali e con il sorgere della divisione internazionale è aumentata la interdipendenza tra le singole nazioni, alle quali, per la riproduzione del proprio sistema sociale, diventano necessarie le materie prime, i prodotti agricoli e i manufatti provenienti da altre nazioni. Sorge così la necessità di una forma di regolazione dei rapporti internazionali, ma questa regolazione finora si è realizzata attraverso il predominio di una singola nazione che impone la propria forma di regolazione. Poiché è una forma di regolazione che viene imposta tramite una diseguaglianza, questa viene messa in discussione nella misura in cui le potenze sottoposte raggiungono una potenza che eguaglia quella della potenza predominante. Così all’egemonia inglese è succeduta l’egemonia statunitense, che ha approfittato delle rivalità europee, nonché di un imperialismo europeo ormai avulso dalla realtà storica, per sostituirsi all’Inghilterra come potenza egemone. Con l’avvento del’egemonia americana vi è stato inoltre un cambiamento di sistema all’interno dello stesso sistema capitalistico, poiché il capitalismo americano è un capitalismo qualitativamente diverso dal capitalismo borghese ottecentesco. Il capitalismo manageriale statunitense è un capitalismo con un diverso ruolo della classe media che riesce ad introdursi nei gangli effettivi del potere sia economico che politico, ma in coabitazione con il grande capitale, il quale sta riaffermando il suo ruolo primario. I Clinton, Obama sono classe media, ma non più con un ruolo in ascesa come classe, ma come esecutori degli ordini del grande capitale. Questo spazio apertosi nel potere era stato colto anche dalla classe media tedesca che si giocava la carta dell’egemonia mondiale tedesca, senza considerare i limiti della potenza dello stato tedesco, finendo per consegnare l’egemonia agli Usa senza nessun contrappeso, se non quello costituito dalla potenza sovietica, la quale però era un gigante con i piedi d’argilla.
L’egemonia del capitalismo manageriale ha portato ad un generale avanzamento della classe media nei “paesi occidentali”, grazie ad un aumento della produttività del lavoro e conseguente aumento della quota di pluslavoro che consente di “mantenere” uno strato molto più ampio di persone non direttamente impegnate nei lavori produttivi (di plusvalore) ed è stato uno dei capisaldi del consenso verso questo sistema, tuttavia questo sviluppo ha finito per assumere forme malsane in Europa, particolarmente in Italia e in Grecia, dove invece della classe media produttiva ha prevalso un ceto medio semicolto, sostanzialmente parassitario, che è stata la causa principale dell’indebitamento di questi stati. Tuttavia essendo questi degli strati inferiori che hanno trovato una forma fasulla di mobilità sociale attraverso non la condivisione di ruoli effettivi nell’economia o nella gestione dello stato, ma attraverso forme di parassitismo, saranno falcidiati essi stessi dalla crisi del capitalismo manageriale, soprattutto per quanto riguarda le forme di assistenzialismo e clientelismo statale, mentre si espanderanno i privilegi della classe politica che è il fulcro del ceto medio semicolto.
In Italia una delle poche figure del capitalismo manageriale è stata Enrico Mattei, per il resto è rimasto un sistema di capitalismo familiare in quanto la modernizzazione, italiana è stata una modernizzazione a metà, una modernizzazione su basi arretrate. Ma quello stesso stato che era stato l’arteficie principale del “boom” economico, di cui Mattei era stato avanguardia eroica, è presto degenerato, proprio perché poggiava su basi instabili e incerte e soprattutto subordinate, nel principale fautore di quel clientelismo che ha portato all’abnorme espansione del ceto medio semicolto. Ceto medio semicolto non sono semplicemente gli statali, ogni stato moderno ha bisogno di un esteso sistema amministrativo, ceto medio semicolto è la degenerazione del capitalismo manageriale in cui la classe media non riesce effettivamente ad appropriarsi dello stato e entrare nella gestione dell’economia, ma si crea una falsa forma di mobilità nell’ambito della politica, o dell’amministrazione statale, nei settori dello spettacolo e del giornalismo e in ambito accademico, settori che si espandono in modo abnorme. La degenerazione di questo sistema in Italia ha già raggiunto un livello tale che il paese potrà salvarsi dall’affondamento soltanto attraverso un cambiamento di sistema. Anche se ci fosse la consapevolezza soggettiva della situazione oggettiva, cosa da cui siamo ben lontani, anzi in questi giorni tanti balordamento festeggiano l’asservimento definitivo dell’Italia immaginando nella loro testa chissà quale cambiamento, ancora la maggioranza non ha verificato con mano che sta diventando un paese povero e disintegrato dalla sua classe politica. Ma se anche si fossero le condizioni soggettive e la presenza di un gruppo politico orientato in tal senso, tale cambiamento troverebbe un ostacolo insormontabile nell’attuale mancanza di potenze capaci di contrastare la potenza statunitense, e capaci di fornire una sponda ad un’Italia che volesse riposizionarsi all’interno del contesto dei rapporti internazionali, come seguirebbe necessariamente da un sostanziale cambiamento del quadro politico italiano interno. La potenza statunitense ha perso la capacità di funzionare da centro regolatore e cerca di perpetuare il proprio dominio attraverso la “strategia del caos”, teorizzata e pratica dai dominanti statunitensi, ma ancora non vi sono forze capaci di contrastare la potenza statunitense. Tuttavia questo cambierà nei prossimi decenni, sicuramente il “blocco occidentale”, cioè Stati Uniti con al seguito l’Europa subordinata è destinato a disintegrarsi presto. Già nella fase attuale Inghilterra, Francia e Germania cercano di riposizionarsi facendo pagare la crisi ai cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Il fascismo e il comunismo europeo (quello russo fu un fenomeno sostanzialmente diverso), furono due movimenti politici che si svilupparono in opposizione complementare, furono il frutto di un’Europa incapace di comprendere i profondi cambiamenti mondiali, essi generano una conflittualità interna di natura ideologica che fu causa della nascita di regimi abnormi. Non è un caso che soltanto in Europa questione sociale e questione nazionale si presentarono in maniera così nettamente separata. L’incapacità dei comunisti tedeschi di comprendere la questione nazionale, mentre era evidente alla maggioranza della popolazione tedesca che la sottomissione nazionale era la causa della rovina e della fame, ebbe come reazione opposta il nazismo, in cui la questione nazionale assunse una dimensione abnorme con il tentativo nazista, impossibile per i limiti naturali della potenza tedesca, di sostituirsi all’Inghilterra quale potenza egemone. Successivamente gli Usa hanno usato questa divisione, manipolando sia l’antifascismo che l’anticomunismo per stabilire il loro dominio sui paesi europei.
Scrive Costanzo Preve: “La formazione del niccianesimo novecentesco fa parte di un conflitto storico reale, la guerra civile sociale e culturale fra la piccola borghesia (pseudo-nicciana) e le classi popolari subalterne (pseudo-marxiste). Questo conflitto fu tragicomico, o più esattamente tragico visto da vicino e comico visto da lontano, in quanto si legittimava su di un doppio equivoco, ed era accuratamente “sorvegliato” dall’alto da una grande oligarchia capitalistica che favoriva questi giochi gladiatori in quanto circenses ideologiche passavano sempre a lato dei veri conflitti… La lunga guerra tra Marx e Nietzsche, dunque, è finita. C’è stata, ed abbiamo cercato di spiegare sommariamente perché c’è stata. Ma ora è venuta meno la ragione del contendere. Ammesso che ci fossero due vie d’uscita per la crisi della modernità, quella del rivoluzionario democratico e quella del ribelle aristocratico, oggi queste due vie sono fallite entrambe, o quanto meno si è modificato strutturalmente lo scenario storico ed il quadro filosofico.” Vorrei aggiungere che chi intende perpetrare questa guerra finisce per essere un alleato consapevole o inconsapevole dell’Impero.
La conflittualità sociale esiste e sarebbe un errore volerla eliminare in una indistinta “comunità nazionale”, tuttavia deve diventare consapevolezza diffusa che questa conflittualità sociale deve essere messa da parte quando vi è un attacco esterno allo stato, altrimenti dare la preminenza alla conflittualità sociale sia da parte delle classi medie che delle classi inferiori vuol dire tradimento del proprio paese.
Quel che resta delle classi medie produttive dovrebbe cercare innanzitutto un’alleanza con le classi inferiori al fine di impedire il saccheggio dell’Italia. Ma, dato il livello di consapevolezza diffuso e la degenerazione completa della classe politica il disastro sembra assicurato, putroppo soltanto una crisi devastante può ormai colmare lo frattura tra situazione oggettiva e consapevolezza soggettiva, ma in modo che dopo sarà ben difficile riprendersi. Inoltre, bisogna essere ben consapevoli che questo tipo di ordinamento internazionale è destinato a sfasciarsi, gli Usa potrebbero mantenere il ruolo di potenza egemone (anche se, considerata la sostanza umana della sua attuale classe dirigente, ciò mi sembra improbabile), ma sicuramente verranno sconvolti i rapporti internazionali e gli stessi sistemi sociali. Un paese senza guida politica, in cui la sua classe politica parassitaria ha consegnato il paese alle potenze straniere (agli Stati Uniti dietro il paravanto dell’Unione europea), per spolparlo delle sue ricchezze residue a fargli pagari i costi della crisi, inevitabilmente finirà in fondo alla scala delle relazioni internazionali.
Se questo sarà il destino dell’Italia, la popolazione, l’insieme dei suoi gruppi sociali, dovrà dare la colpa ai propri difetti, in particolare all’inestirpabile particolarismo, la stupida furbizia che caratterizza tutti i gruppi sociali. Lo stesso Berlusconi, promotore e risultato dello stato di grave decadenza del paese, assurdo personaggio che invece di dedicarsi, da presidente del consiglio, alla politica si circondava di nani e ballerine, quando ha cercato di promuovere degli accordi con la Russia e con la Libia che erano nell’interesse del paese, si è ritrovato completamente solo di fronte all’attacco internazionale, per cui ha deciso di tradire un paese che di fatto non gli aveva dato nessun appoggio. Non aveva nessuna possibilità di opporsi alla volontà statunitense senza essere estromesso dalla carica con una condanna giudiziaria, come è avvenuto con la classe politica della cosiddetta prima repubblica, oppure addirittura liquidato fisicamente. La statuetta che gli è stata lanciata in faccia gli ha fatto capire di non godere di nessuna protezione, di essere solo in quel paese in cui si diceva era capo del governo.
D’altronde così vanno le cose, alcuni popoli vanno avanti altri regrediscono. È per questo che queste mie riflessioni vorrebbero poter travalicare i confini nazionali. Altri popoli saranno protagonisti dello sviluppo sociale, tecnico, scientifico, artistico del domani. Mi preme innanzitutto sul piano teorico affermare l’esigenza di una diversa considerazione del conflitto, in quanto questione cruciale su cui riorganizzare la prassi politica.
La maggiore preoccupazione dei governi occidentali del dopoguerra è stata quella di neutralizzare il conflitto, soprattutto attraverso la propagazione, attraverso un vastissimo apparato di indottrinamento, di un individualismo che separa il singolo dal resto della realtà sociale, tuttavia la crisi ha spinto i dominanti a scalzare le basi materiali di questo individualismo, consistenti in un certo tenore di vita, una certa agiatezza materiale che ai più rendeva accettabile la gabbia in cui si veniva rinchiusi.
La crisi del sistema, suppure potrà assumere delle forme estremamente drammatiche, ritrascinerà nei conflitti tanti che avrebbero trascorso la vita imbambolati nel tran tran casa, lavoro, fine settimana, vacanze, una gabbia dorata costruita apposta per evitare il “contatto” con gli altri. Sarà la storia che ricomincia. Il conflitto conferisce senso alla vita perché non è che l’altra faccia del relazionarsi degli esseri umani gli uni con gli altri, e la vita per il singolo ha senso soltanto nella relazione con l’altro essere umano.
Compito delle forze politiche positive del domani non dovrebbe più essere quello di voler eliminare le cause dei conflitti, ma di indirizzare i conflitti in modo che assumano forme non distruttive che concorrano allo sviluppo di società più giuste, più vitali, più sane.

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