Il marxismo e la non-violenza: compromesso impossibile

Un passaggio mette in luce, a mio parere, gli obiettivi del libro di D. Losurdo, La non violenza:

 «Sappiamo delle lacrime e del sangue di cui hanno grondato, con modalità e risultati assai diversi, i progetti di trasformazione del mondo mediante la rivoluzione. A partire dal saggio pubblicato nel 1921 da Walter Benjamin, la filosofia del Novecento si è impegnata nella «critica della violenza» anche quando essa pretende di essere «mezzo a fini giusti»; ma cosa sappiamo dei dilemmi, dei «tradimenti», delle delusioni e delle vere e proprie tragedie in cui si è imbattuto il movimento ispiratosi all’ideale della non violenza” (p. 8)».

Dunque da una parte viene accolta la critica «non violenta» a tutti i progetti di trasformazione sociali «violenti», ma allo stesso tempo la non violenza, come chiarisce il capitolo conclusivo del libro, per essere accolta deve essere sottoposta ad un esame critico che la trasformi in non violenza «realistica» che preveda l’adozione della violenza quando necessaria. Un vero corto circuito.
Invece, a mio parere, oggi i «tradizionali» metodi di trasformazione sociale in Italia andrebbero riscoperti, pena il declino definitivo del paese guidato da una classe dirigente marcia. Losurdo invece appartiene ad un gruppo politico prima interno a Rifondazione, poi confluito nel Pdci, apparentemente critico verso l’ala bertinottiana, ma che ora approda alle stesse concezioni, perché la non-violenza, in Bertinotti come in Losurdo, serve per condannare a priori ogni ipotesi di trasformazione sociale e alla piena integrazione di quel che resta del movimento comunista nel «pacifismo» imperiale, cioè un pacifismo che serve per disarmare teoricamente e materialmente i gruppi sociali, le nazioni e i popoli oggetti della politica del paese dominante.
La trasformazione sociale è frutto del conflitto tra gli esseri umani. Quando un ordinamento sociale non funziona, per vari motivi, il conflitto sempre latente diventa acuto, a causa dalla tendenza spontanea verso la ricerca di un nuovo ordinamento, nel caso di una società ancora vitale e non irrimediabilmente decadente. Tale conflitto può risolversi in modi più o meno «democratici», cioè con un grado di violenza minimo o massimo che dipende dai gruppi sociali in lotta, dai contesti storici e culturali.
Ovviamente, sarebbe meglio poter demolire un ordinamento sociale marcio senza ricorrere ad una cruenta guerra civile, e alle «piacevolezze» che essa comporta (questa verità somiglia alle ovvietà pronunciate con comica saccenza da Catalano, personaggio televisivo di un paio decenni fa), ma escludere per principio il ricorso alla violenza vuol dire in realtà escludere ogni ipotesi di trasformazione sociale, posizione indice di un’orientamento reazionario e conservatore che è proprio di tutti i gruppi politici che appartengono all’attuale ordinamento politico italiano, compreso quello a cui è «organico» Losurdo. Per questo motivo, per quanto si professi «marxista», Losurdo, in realtà, si colloca in direzione opposta rispetto al marxismo che nasce come corrente politica rivoluzionaria.
La concezione marxiana del conflitto come motore della trasformazione sociale, con i suoi inevitabili risvolti violenti, nella sua concezione essenziale, va conservata, tuttavia l’esperienza storica ha dimostrato che il suo dualismo (lotta di classe contro classe) si è rivelato troppo semplice, non adeguato, e va quindi adottato un modello più complesso che preveda l’interazione tra una somma di conflitti, in cui il significato di ogni conflitto non va considerato per sé, ma in relazione agli altri conflitti (vedi mio scritto sulla Relatività dei conflitti), che tenga conto del contesto internazionale e del conflitto verticale oltre che orizzontale, cioè all’interno delle classi superiori, come all’interno di quelle inferiori. Proprio perché il modello dualistico marxiano si rivelò non adeguato a comprendere la trasformazione sociale fu necessario il cambiamento di paradigma leniniano, il quale con il concetto di «anello debole» introdusse il conflitto internazionale quale fattore principale (il che non vuol dire escludere i fattori interni di trasformazione sociale).
Questo cambiamento di paradigma, in realtà non pensato come tale, anzi Lenin rivendicava l’«ortodossia» marxista, ebbe come effetto secondario, «collaterale» – poiché costituì un passaggio imperfetto – la deriva pacifista di una parte del movimento comunista, deriva che da Rosa Luxemburg a Karl Liebnecht costituisce il punto d’avvio del cosiddetto «marxismo occidentale», che ha reso il comunismo una blanda variante del pacifismo, come è evidente oggi nei programmi di Rifondazione e in vari gruppi di sinistra «radicale» (il Pdci vorrebbe dare un’immagine più «antimperialista», ma è pura facciata). Il pacifismo non può che essere una forma di collaborazione con il potere dominante, il quale dopo aver stabilito il suo dominio deve «pacificare». Pacifismo e approccio rivoluzionario sono incompatibili, in quanto ogni reale trasformazione sociale non può non prevedere un certo grado di violenza, minimo o massimo che sia. Losurdo, nell’includere il movimento comunista nel movimento pacifista, vuol coniugare il diavolo e l’acqua santa.
Democrazia, pacifismo, riformismo, parlamentarismo sono tutte teorie e forme di prassi politiche che hanno una loro funzione quando un determinato assetto, sia inter-nazionale sia all’interno delle formazioni particolari, è in fase di consolidamento e di espansione. Esse hanno una loro ragion d’essere fin quando sono finalizzate ad ottenere la miglior collocazione dei gruppi sociali di riferimento all’interno di rapporti di potere in cui le classi dominanti sono disposte a concedere qualcosa alle classi medie e inferiori, pur di stabilizzare un ordinamento, poiché alla fine un ordinamento si deve pur creare, data la necessità che hanno gli esseri umani di cooperare. Quando invece un ordinamento è in fase di sfaldamento, le suddette teorie e forme di prassi politica svolgono una funzione reazionaria in quanto vorrebbero frenare il conflitto, invece che portarlo alle sue necessarie conseguenze.
Il marxismo nasce come teoria rivoluzionaria, come teoria della rottura e passaggio da una forma di ordinamento sociale ad un’altra, seppur con sfondo utopistico: il Comunismo. Quindi coniugarlo con democrazia, pacifismo, riformismo o parlamentarismo significherebbe snaturarlo. Forse uno dei grossi difetti del marxismo è di non aver sviluppato una teoria che fondasse la prassi nei periodi non rivoluzionari, ma nei periodi di sconvolgimento sociale è sicura fonte di ispirazione. Né Marx né Engels erano pacifisti, Marx auspicava, giungendo a toni di vera e propria crociata, la guerra rivoluzionaria della borghesia europea contro la Russia zarista ritenuta il bastione della reazione, Engels vedeva con grande favore l’introduzione della leva obbligatoria di massa in quanto avrebbe «armato gli operai» fornendogli gli strumenti necessari quando sarebbe stato «il loro momento».
Più complesso è il discorso per quanto riguarda Lenin. Riprendo qui dall’importante testo Il socialismo e la guerra:

«I socialisti hanno sempre condannato le guerre fra i popoli come cosa barbara e bestiale. Ma il nostro atteggiamento di fronte alla guerra è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi (fautori e predicatori della pace) e degli anarchici. Dai primi ci distinguiamo in quanto comprendiamo l’inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell’interno di ogni paese, comprendiamo l’impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo, come pure in quanto riconosciamo pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro i padroni di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia. E dai pacifisti e dagli anarchici noi marxisti ci distinguiamo in quanto riconosciamo la necessità dell’esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx) di ogni singola guerra. Nella storia sono più volte avvenute delle guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive; che, cioè, sono state utili all’evoluzione dell’umanità, contribuendo a distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l’autocrazia o la servitù della gleba), i più barbari dispotismi dell’Europa (quello turco e quello russo). Perciò bisogna prendere in esame le particolarità storiche proprie di questa guerra».

Lenin ricorda che la posizione di Marx ed Engels di fronte alla singola guerra non fu mai improntata al pacifismo o al neutralismo, essi stavano dalla parte delle forze la cui vittoria avrebbe favorito lo sviluppo del movimento operaio, tuttavia ritiene che nella I guerra mondiale sia impossibile stabilire da che parte stare, pur considerando la sconfitta dello zarismo «il male minore». Una posizione non chiara, con molti nodi irrisolti che lasciava spazio all’antimilitarismo. L’antimilitarismo dei comunisti tedeschi, mentre la Germania veniva devastata economicamente attraverso la finanza internazionale e attraverso l’imposizione (col trattato di Versailles) di pesanti debiti di guerra che servivano a metterla permanente in ginocchio, causando una gravissima crisi economica e sociale, ebbe come risposta il sorgere di uno regimi più ferocemente militaristi della storia. Si tratta di una serie di questioni cruciali irrisolte che sono, a mio parere, all’origine della deriva del marxismo e della sua mancata evoluzione come teoria della trasformazione sociale. Ma ci dobbiamo fermare qui perché la questione merita un esame molto più ampio di quanto questo scritto concede. Ci basti per ora stabilire che per quanto nel grande Lenin si verifichino, viste con il senno di poi, delle difficoltà teoriche, sarebbe alquanto campato in aria includere tout court la sua posizione nell’ambito del pacifismo.
Dall’imperfetto ma necessario passaggio dal paradigma marxiano (lotta tra le classi come principale motore della trasformazione sociale) al paradigma leniniano (lotta internazionale e creazione dell’«anello debole») si genera la deriva pacifista del cosiddetto «marxismo occidentale» a partire da Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg. Lo stesso Lenin si pronunciò sempre favorevolmente riguardo al primo e della seconda disse che restava un’aquila seppur talvolta volasse più basso delle galline, nonostante che questa l’avesse pesantamente attaccato per il suo scarso «senso della democrazia».
Va detto che Losurdo è uno studioso che fornisce sempre degli spunti interessanti, nonostante questo sia un libro nell’insieme non condivisibile e nonostante la sostanziale adesione a quella vera e propria gabbia del pensiero rappresentata dal metodo accademico, secondo il quale chi si impegna in un’analisi che vuole essere «scientifica» ci deve mettere di suo il meno possibile e far emergere tutto dalle «prove» (garanzia della «scientificità» del discorso) in genere costuituite da «citazioni» di altri libri. Ragion per cui non è facile capire come la pensi Losurdo su tante questioni, ma il suo punto di vista lo dobbiamo desumere dalle conclusioni a cui ci vogliono condurre la caterva di citazioni e da qualche giudizio «a latere» delle stesse.
Interessante è l’esame critico della non-violenza, seppur finalizzato all’adozione di una sua versione critica della stessa, cioè una non violenza, che preveda in caso di necessità l’adozione della violenza. Innanzitutto Losurdo sottolinea l’incorporazione di tale ideologia nella propaganda occidentale, il fatto che il potere statunitense ha saputo far tesoro della «tecnica dell’indignazione morale» utilizzata da Gandhi, per farla diventare uno degli strumenti delle «rivoluzioni colorate», la cui tecnica viene addirittura propagandata attraverso la diffusione di un «manuale» liberamente disponibile su internet. Efficace inoltre è la descrizione di come la non-violenza finisce per rovesciarsi nel suo contrario, in quanto arriva sempre il momento in cui la violenza si palesa necessaria anche ai non violenti, e di conseguenza questi per conservare la propria coerenza devono «de-umanizzare» il nemico al rango delle bestie, oppure includerlo nel rango di criminali verso i quali la violenza è lecita, anzi non si pone neppure un problema morale, dando così libero corso alla giustificazione di una violenza senza limiti.
Dall’«apparato di citazioni» del libro di Losurdo si desume che siccome il leninismo affonderebbe parte delle sue radici nel movimento anticoloniale a cui appartiene anche il gandismo, queste ideologie avrebbero molti elementi in comune. Ma questo, come abbiamo già visto, non è affatto vero! Né il marxismo né il leninismo sono una forma di pacifismo. D’altronde Losurdo al di là di qualche citazione non si impegna in un autentico esame della posizione del marxismo e del leninismo, sulla questione della pace e della guerra.
E’ significativo che Losurdo, nel tentativo piuttosto surrettizio di includere il marxismo e il leninismo nell’ambito del pacifismo, si richiami a quella parte del pensiero di Marx e di Lenin più vicina all’anarchismo, da lui nei precedenti libri sempre criticata e indicata quale una delle principali eredità da superare. La teoria del «superamento dello Stato» è sicuramente presente sia in Marx che in Lenin, ma questo non ne fa dei pacifisti.
Il libro di Losurdo termina nell’inconcludenza: un paragrafo finale del libro recita «Per una ripresa del movimento anti-militarista», ma in cosa consisterebbe questa ripresa non è dato capire.
Losurdo ricorda giustamente la sostanziale differenza tra lo sciovinismo e il patriottismo (p. 261), tuttavia questa distinzione è fuorviante per quanto riguarda l’imperialismo statunitense il quale non si presenta come sciovinismo, ma invece come universalismo imperialista che in nome della «democrazia» e dei «diritti umani» si arroga il diritto di intervenire secondo modalità soft o hard in qualsiasi nazione, i cui confini non vengono riconosciuti in quanto la lotta per la «democrazia» non conosce confini, non escluso quelle «occidentali», vedi il marasma italiano provocato dalla debolezza e marciume della sua classe politica su cui ha buon gioco l’intervento nascosto statunitense.
Scrive Losurdo: «L’interventismo democratico e umanitario è il contrario della democrazia e della pace» (p. 262). Quindi all’interventismo statunitense dobbiamo contrapporre tante manifestazioni con palloncini colorati a cui partecipano regolarmente i vari Diliberto e Bertinotti, per poi votare l’esatto contrario in parlamento? Oppure la pace è preservata da un’adeguata capacità di deterrenza dei paesi sottoposti alle attenzioni «democratiche» degli Stati Uniti e dei paesi «occidentali»? E poi ci sono diversi tipi di pace: c’è una pace fondata sull’equilibrio delle forze che preserva l’autonomia dei popoli necessaria al loro sviluppo, e una pace basata sull’accettazione di un ruolo subordinato che comporta il sottosviluppo permanente. Ecco perché il pacifismo e la non-violenza non potranno mai far parte del bagaglio teorico di quanti si richiamano all’eredità autentica del comunismo e del marxismo. Rifiutare l’antimiliarismo vuol dire essere militaristi? Rifiutiamo questa falsa alternativa: l’unica pace autentica è quella che deriva dall’equilibrio delle forze. Per non subire violenza bisogna essere capaci di usare la violenza. Il pacifismo non è che l’altra faccia del dominio imperiale, da sempre i missionari, e oggi le Ong, hanno accompagnato le missioni coloniali.

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